Dall’inizio della rivoluzione industriale, lo sviluppo economico globale si è basato sui combustibili fossili, alimentando una crescita senza precedenti ma anche un aumento esponenziale delle emissioni di gas serra.

Lo stretto legame tra crescita economica e impatti ambientali ha portato al riscaldamento globale, una delle sfide più urgenti del nostro tempo.

Come conciliare la necessità di sviluppo con l’urgenza di limitare i cambiamenti climatici? La risposta potrebbe essere il decoupling, un concetto che mira a disaccoppiare la crescita economica dalle emissioni di gas serra.

Cos’è il decoupling?

Il termine decoupling (disaccoppiamento) descrive la separazione tra due variabili che tradizionalmente si muovono in parallelo. In ambito ambientale, si riferisce alla possibilità di far crescere l’economia senza aumentare le emissioni o, meglio ancora, riducendole.

L’IPCC nello specifico definisce il decoupling come il momento in cui la crescita economica non è più strettamente associata al consumo di combustibili fossili.

Ne esistono due tipologie principali:

  • Relativo: le emissioni continuano ad aumentare, ma a un ritmo più lento rispetto al PIL. È una situazione migliorativa ma insufficiente per affrontare la crisi climatica.
  • Assoluto: il PIL cresce, mentre le emissioni diminuiscono in termini assoluti. Questo è l’obiettivo finale per raggiungere la neutralità carbonica.

I pilastri del decoupling: l’identità di Kaya

Per comprendere come avvenga il decoupling, gli scienziati utilizzano l’identità di Kaya, che individua quattro fattori chiave alla base delle emissioni:

  1. Popolazione: una crescita demografica porta inevitabilmente a un aumento della domanda di energia e risorse.
  2. PIL pro capite: è il livello di ricchezza e consumo per individuo.
  3. Intensità energetica: la quantità di energia necessaria per produrre una determinata unità di PIL.
  4. Intensità carbonica: la quantità di emissioni prodotte per unità di energia utilizzata.

Per disaccoppiare il PIL dalle emissioni, è essenziale ridurre l’intensità energetica e carbonica attraverso:

  • Efficienza energetica: promuovere tecnologie che consumano meno energia per unità di prodotto.
  • Transizione energetica: passare dalle fonti fossili a quelle rinnovabili (eolico, solare, biomasse) e a basse emissioni di carbonio.

A che punto siamo?

A livello globale, il decoupling relativo è già realtà: negli ultimi vent’anni, la crescita del PIL è stata circa il doppio rispetto a quella delle emissioni secondo il Global Carbon Project.

Nondimeno, il decoupling assoluto è stato osservato solo in periodi limitati, come tra il 2014 e il 2016, quando le emissioni si sono stabilizzate grazie a miglioramenti nell’efficienza energetica, all’aumento delle rinnovabili e alla riduzione dell’uso del carbone.

Il trend però si è rivelato instabile. La pandemia di COVID-19 ha momentaneamente ridotto le emissioni, ma con la ripresa economica globale e il conflitto in Ucraina, l’uso del carbone è tornato a crescere, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo.

Le emissioni sono quindi cresciute e ora sono già più alte di quelle pre-COVID: a livello globale, sono più alte dello 0,6% rispetto al 2019.

Le strategie per un decoupling efficace

Il successo del decoupling dipende da politiche climatiche mirate, che possono includere:

  • Incentivi per le rinnovabili: agevolazioni fiscali per l’installazione di impianti eolici, solari e idroelettrici.
  • Carbon pricing: tassare le emissioni per incoraggiare comportamenti virtuosi.
  • Normative sull’efficienza energetica: standard minimi per edifici, veicoli e industrie.
  • Transizione industriale: promuovere l’elettrificazione e l’adozione di tecnologie a basse emissioni.

Queste misure devono essere accompagnate da un cambiamento culturale, incentivando i consumatori a preferire prodotti sostenibili e a ridurre gli sprechi.

Il decoupling nei Paesi sviluppati

Molti Paesi ad alto reddito, come quelli dell’UE e del Nord America, hanno raggiunto un decoupling assoluto grazie alla decarbonizzazione delle loro economie.

Si tratta, tuttavia, di un risultato relativo. Una parte del disaccoppiamento, infatti, è dovuta alla “delocalizzazione” delle emissioni, ossia allo spostamento delle produzioni ad alta intensità di carbonio verso Paesi in via di sviluppo.

Esistono due metodi principali per calcolare le emissioni:

  • Produzione: considera solo le emissioni prodotte all’interno di un Paese.
  • Consumo: attribuisce le emissioni al Paese che consuma i beni, indipendentemente dal luogo di produzione. Quest’ultimo metodo rivela spesso un quadro meno positivo per molti paesi sviluppati.

A confermare la differenza tra i due sistemi di conteggio, un recente studio evidenzia che, su 116 Paesi considerati, in una prospettiva basata sulla produzione sono 32 (principalmente paesi sviluppati) ad aver raggiunto il decoupling assoluto nel periodo 2015-2018, numero però che scende a 23 in una prospettiva basata sul consumo.

Scenari futuri e alternative: oltre il PIL

Il decoupling assoluto è essenziale per limitare il riscaldamento globale a 1,5°C o 2°C, come previsto dall’Accordo di Parigi. Ma non è sufficiente. Anche se le emissioni annuali diminuiscono, il bilancio di carbonio globale continua a esaurirsi. Per questo motivo, si discute di alternative come:

  • Decrescita: una riduzione controllata della produzione economica, focalizzandosi sul benessere umano piuttosto che sulla crescita del PIL.
  • Economia del benessere: ripensare i modelli economici per dare priorità a indicatori come la qualità della vita, la salute e l’ambiente.

Il decoupling è quindi una strada necessaria per un futuro sostenibile, ma non può essere l’unica soluzione. È necessario un impegno coordinato tra governi, aziende e cittadini per abbracciare modelli economici che non si basino esclusivamente sulla crescita del PIL, ma che considerino il benessere umano e ambientale come obiettivi centrali.

Il futuro del pianeta (e di tutti noi) dipende da quanto velocemente saremo in grado di adottare questa transizione.

Fonte:

IPCC

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